mercoledì 25 novembre 2009

UNO STUDIO QUALITATIVO SU MINORI RESIDENTI IN ISTITUTO

A partire dalla fine degli anni ’70 le normative che regolano l’assistenza all’infanzia, hanno teso sempre più verso il decentramento delle competenze e la deistituzionalizzazione.
I minori che, per diverse ragioni, però non possono vivere all’interno delle proprie famiglie e per i quali non sia stato possibile un affido etero-familiare, vengono accolti in strutture residenziali. Le ultime normative stabiliscono l’adattamento di tali strutture a modelli familiari, attraverso la riduzione del numero di ospiti che non devono essere più di otto, la disposizione in camere con pochi posti letto, infine l’apertura verso l’ambiente territoriale nel quale sono inserite.
Viene qui presentata un’indagine qualitativa condotta su 9 ragazze, di età compresa fra gli undici e i diciotto anni, residenti presso un istituto religioso femminile, situato nel territorio del I Municipio di Roma. Questo istituto è ancora in una fase iniziale di trasformazione: accoglie al momento 20 minori fra i quattro e i diciotto anni di cui solo due sono italiane. Soltanto una fra le minori usufruisce di un servizio di semiconvitto, mentre le altre vivono dal lunedì al venerdì in istituto. Due suore svolgono la funzione di educatrici, aiutate da volontari che nel pomeriggio per supportano le ragazze nello studio. Fra le altre attività le minori svolgono attività sportive e partecipano, una volta alla settimana ad un gruppo di sostegno, condotto da uno psicologo, con il quale hanno la possibilità di avere colloqui individuali. Su richiesta, lo psicologo incontra anche le famiglie delle minori.
Sono inoltre presenti altre iniziative all’interno del progetto educativo. Una volta alla settimana un volontario aiuta le adolescenti a prendere dimestichezza con l’uso dei computer. Lo scorso anno è stato attivato presso un consultorio un servizio di consulenza per problemi relativi alla sfera sessuale. Vengono inoltre organizzate delle uscite nel tempo libero.
Tutto ciò è lasciato all’iniziativa delle educatrici, supportate dalla presenza dei volontari, con i quali, insieme a due psicologi dell’Ufficio di Servizio Sociale del I Municipio, vengono svolte delle riunioni mensili al fine di organizzare le attività e soprattutto per un confronto e una riflessione sul lavoro svolto.
Pur mirando ad un rinnovamento e ponendo sempre al centro dell’attenzione le singole minori, cercando di individuarne le esigenze personali e le modalità di risposta ad esse, l’istituto necessita ancora di molti cambiamenti.

Lo scopo dell’indagine è stato quello di esplorare i vissuti delle ragazze più grandi, delle quali solo una è italiana, relativi a più dimensioni: la rappresentazione interna dell’istituto e della sua funzione di aiuto, l’ambito relazionale rispetto al gruppo dei pari e a quello degli adulti, l’immagine di sé. Questi dati sono stati raccolti attraverso colloqui individuali (la traccia è riportata nella scheda 1) condotti con ciascuna delle minori. Tale modalità ha anche permesso una ricostruzione delle storie personali delle ragazze, giungendo anche all’individuazione di caratteristiche comuni.
I colloqui con le ragazze sono stati trasformati in racconti, eliminando gli interventi del conduttore ed ottenendo così dei testi da sottoporre all’analisi del contenuto, supportata anche da griglie di codifica appositamente elaborate.

Risultati
1) L’istituto
Si è cercato di comprendere quale sia la funzione attribuita dalle ragazze agli operatori dell’istituto e quale la valutazione che esse ne fanno. C’è una distribuzione piuttosto equa dei giudizi relativi alle suore rispetto al loro ruolo di educatrici. L’atteggiamento oppositivo che le minori mettono in atto nei loro confronti è simile a quello che tutti gli adolescenti adottano verso i propri genitori sui quali, solitamente, proiettano parti negative di sé. In questo caso avverrebbe una sorta di spostamento e ad essere interessate da tale dinamica sarebbero le suore. Spesso la rabbia, per la separazione dalla propria famiglia, invece che essere rivolta verso il genitore è trasferita sull’istituto. Ciò starebbe ad indicare che in parte la funzione di “depurazione” delle parti negative del sé nell’adolescente, generalmente incarnate dalla famiglia, è invece consegnata all’istituto, percepito quindi come capace di contenere il giovane e le sue emozioni.
Bisogna dire che, per quanto riguarda le intervistate, quelle che criticano maggiormente le suore dimostrano in fondo un miglior adattamento all’istituto, rispetto a chi, pur affermando di aver accettato questa situazione, sembra in realtà celare la propria aggressività.
Per quanto riguarda il ruolo dei volontari il giudizio è positivo da parte di tutte le minori, che li considerano di grande supporto allo studio e ne sottolineano la funzione di messa in contatto con il mondo esterno, portando con sé qualcosa di nuovo, in un ambiente sentito come immutevole.
Due ragazze valutano negativamente lo psicologo, ritenendo noiose le attività svolte con lui. Le altre le considerano utili per migliorare i rapporti fra loro e soprattutto per potersi confidare in caso di problemi personali. Al contrario le due ragazze, che ne danno una valutazione negativa, dicono di non capirne l’utilità e non hanno mai richiesto dei colloqui individuali. Sembra essere presente in loro una maggiore resistenza e chiusura nei confronti di qualcosa che forse percepiscono come intrusivo.
Sono state considerate anche alcune caratteristiche dell’istituto. La grandezza della struttura è considerata negativamente da 2 di loro, in quanto non assimilabile ad un modello familiare. La valutazione relativa all’elevato numero di ragazze presenti è invece in apparente contraddizione con quanto appena affermato (le 5 che ne parlano si dicono tutte felici). Ciò potrebbe essere imputabile al fatto che la quasi totalità delle ragazze appartiene a culture caratterizzate da modelli familiari allargati. In 6 criticano la disposizione delle stanze (due grandi dormitori con una suora in ognuno di essi). Viene inoltre segnalata la rigidità delle regole, in particolare quella di andare a dormire alle nove di sera e la limitazione delle uscite. C’è in queste ragazze una sostanziale comprensione della necessità di avere delle regole, ma chiedono degli orari più elastici e la possibilità di uscire più spesso. Sicuramente non è facile conciliare le esigenze di controllo da parte delle educatrici con il bisogno delle ragazze di percepire una condizione di “normalità” che le accomuni ai propri coetanei. Detto ciò, le lamentele delle ragazze possono comunque essere lette nel quadro più generale di una comune opposizione ai limiti e regole imposte dagli adulti. Bisogna però sottolineare che la rigidità delle regole dell’istituto sembra anche trasmettere alle ragazze una percezione di stabilità e contenimento.
Si è voluto anche comprendere quale sia, nell’ottica delle minori, il soggetto che viene aiutato dall’istituto (genitore e/o figlia). Su 9 ragazze, 5 considerano entrambi i soggetti, spiegando per ciascuno quali siano le motivazioni e gli ambiti di supporto necessari, mentre in 4 focalizzano l’attenzione prevalentemente su uno dei due. Le motivazioni principali che sono state date riguardo alla necessità di vivere in collegio sono:
a) Il lavoro dei genitori (6 su 9), che rende difficile per questi seguire le figlie, considerando anche che spesso le minori vivono con uno solo di loro.
b) L’aiuto nello studio e quindi la possibilità di andare a scuola (7 su 9), che per molte sarebbe difficile, vivendo, a casa, per problemi economici e altro.
Ovviamente tutte le categorie sono collegate fra loro. In generale sembra esserci una sostanziale accettazione e comprensione delle ragioni dei genitori da parte delle minori.
2) L’aspetto relazionale
Per quanto attiene all’ambito relazionale, si è voluto indagare come siano i rapporti fra le ragazze all’interno dell’istituto e confrontarli con quelli nel gruppo dei compagni di classe.
In 6 vivono tranquillamente con tutte le altre ragazze e sono riuscite ad instaurare legami particolarmente intensi con qualcuna di loro. E’ qui emerso l’importante aspetto del potere nel gruppo. In molte concordano sulla presenza di una leader. Le sue caratteristiche sono relative all’età e agli anni di permanenza. Quest’ultimo aspetto è collegato all’influenza che ha l’educatrice nell’assegnare, inconsapevolmente, il potere ad una delle ragazze: ciò avviene nel momento in cui la suora chiede favori o responsabilizza in qualche modo una delle minori, in base alla maggiore conoscenza che ha della ragazza. Le relazioni di amicizia sono inevitabilmente condizionate anche da queste dinamiche.
I rapporti con i compagni di classe sono stati indagati per vedere se e come la condizione di immigrata e di minore residente in un istituto influisca su di essi. In 7 affermano di avere rapporti superficiali con la quasi totalità dei coetanei della classe. Oltre a considerare come concausa una timidezza di fondo, le ragazze riconoscono l’influenza della diversa nazionalità (5 su 9) e anche del fatto di vivere in istituto (6 su 9). E’ probabile che questi elementi facciano sì che siano percepite dagli altri come “diverse”. Dai loro racconti si comprende però che sono le ragazze stesse a farsi condizionare da questi aspetti, determinanti in loro emozioni negative che vengono perciò proiettate all’esterno.
Dal confronto fra il gruppo residente in istituto con quello dei compagni di classe emerge quindi una maggiore facilità delle ragazze ad avere legami profondi all’interno della struttura.
Si è voluto anche verificare se gli operatori dell’istituto fossero delle figure di riferimento per le minori e sondare come siano in generale le relazioni con i familiari.
Per la maggior parte delle ragazze emergono rapporti non particolarmente significativi con i volontari e con le suore. Solamente 2 considerano i volontari e/o una suora dei punti di riferimento, arrivando a preferirli ai familiari quando hanno bisogno di aiuto o consigli. Queste due ragazze sono fra quelle che risiedono da più tempo in istituto perciò è probabile che i loro rapporti con gli operatori siano tali proprio in virtù di una più lunga conoscenza.
Riguardo ai familiari non stupisce che per 5 su 9 i rapporti con il padre non siano buoni, considerando che la maggior parte delle ragazze hanno solitamente alle spalle storie di separazioni dei genitori e, come è noto, il più delle volte sono affidate esclusivamente alla madre.
La sfiducia negli altri, ma anche in sé stesse, in molte di loro è attribuibile alle precoci esperienze di perdita che hanno vissuto. Si ricorda che, oltre alla mancanza per quasi tutte di un padre, la maggior parte di loro ha trascorso i primi anni di vita lontane anche dalle madri, immigrate in Italia in cerca di lavoro. Legato a tale elemento è anche il fatto che, pur avendo la maggior parte delle ragazze rapporti buoni con la madre, è da loro sottolineata una certa difficoltà comunicativa con le stesse.
3) L’immagine di sé
Si è inoltre cercato di indagare, attraverso i colloqui, quale tipo di immagine del sé le minori residenti in istituto abbiano elaborato. Emerge una sostanziale positività nella valutazione che le ragazze fanno del proprio carattere. C’è in letteratura un consenso unanime sul fatto che i bambini, certi del rifiuto del genitore, ad una sua richiesta di aiuto, tendano a sviluppare una personalità emotivamente autosufficiente. Inoltre la generale sfiducia negli altri porta queste persone ad acquisire un atteggiamento di elevata fiducia e stima di sé. E’ in questa chiave di lettura che i dati emersi, sul discreto livello di autostima delle ragazze intervistate, possono essere interpretati. Allo stesso modo può essere compresa la difficoltà della maggior parte di loro nel chiedere aiuto agli altri.


Conclusioni

Da questo lavoro sono emerse le difficoltà determinate dal vivere in un contesto lontano da un modello familiare. Ciononostante le ragazze intervistate dimostrano un discreto adattamento alla situazione. Questo elemento è probabilmente favorito da un lato dalle capacità proprie delle educatrici e di quanti, con diversi ruoli, vi operano, dall’altro dalla presenza comunque percepita delle famiglie. Ciò appare chiaro soprattutto osservando quei casi in cui il malessere delle minori è più forte, il che è accompagnato da una lontananza, affettiva e\o comunicativa, percepita rispetto ai genitori. E’ probabilmente questo l’elemento fondamentale nel determinare il livello di adattamento e accettazione del vivere lontane dalla famiglia. Laddove il rapporto affettivo, la comunicazione non vengono a mancare, nonostante la lontananza e le difficoltà a trascorrere più tempo insieme, le minori dimostrano di accettare sufficientemente la vita comunitaria.
Per quanto riguarda le educatrici, è senza dubbio confermata la scarsa possibilità, in un istituto con tante ospiti, di personalizzare maggiormente i rapporti con le minori. Ciononostante è anche emersa la loro capacità di rappresentare un punto di riferimento e soprattutto di stabilità per ragazze che, al contrario, il più delle volte percepiscono una carenza di queste caratteristiche nelle proprie famiglie.
Rimane impellente la necessità di attuare al più presto tutta una serie di provvedimenti, tesi ad una più possibile normalizzazione del vivere in strutture residenziali. Ciò comprende ovviamente la ristrutturazione edilizia dell’istituto ma, allo stesso tempo, sarebbe importante ripensare certe modalità organizzative. Mi riferisco per esempio alla consuetudine in questo istituto di far stare, dove possibile, le ragazze nelle stesse classi a scuola: questa modalità risulta nel più dei casi controproducente all’integrazione delle minori con gli altri compagni. Le attività di svago dovrebbero forse essere aumentate, cercando di far aprire sempre più la struttura all’ambiente nel quale è inserito; a tale proposito i volontari e in generale la presenza di figure esterne all’istituto andrebbe forse incrementata, così da permettere un maggior contatto fra lo “spazio” interno all’istituto e quello esterno.
Tutti questi interventi devono comunque essere inscritti all’interno di un dialogo costante fra l’istituto e le famiglie, laddove possibile, al fine di garantire un progetto educativo unitario, che non ponga le minori al centro di dinamiche conflittuali.
Questi elementi non sono certo estensibili a tutti i minori residenti in strutture simili, a causa del ridotto numero di persone qui considerate. Ciononostante, le informazioni emerse possono risultare utili alla comprensione della prospettiva di chi, in tenera età, si trova a dover vivere fuori
del proprio nucleo familiare.


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lunedì 9 novembre 2009

Empatia e processi cognitivi in relazione al ritardo mentale

Da un’analisi della letteratura e della pratica relativa alla riabilitazione nel ritardo mentale, a mio avviso, emergerebbe una visione in qualche modo specialistica sulle singole funzioni da riabilitare, come se fossero scollegate fra loro. Mi sembra che si perda spesso una visione olistica, una prospettiva che tenga conto dell’organismo nel suo insieme.

In particolare ciò che dal mio punto di vista tende ad essere tralasciato è un lavoro sulla consapevolezza di sé e quindi sulla possibilità di riconoscimento dei propri vissuti, bisogni e motivazioni all’autonomia, quasi che il ritardo intellettivo avesse come compagine un’impossibilità ad accedere al mondo emotivo.

Approfondendo le varie teorie e studi sulle emozioni, emerge il confronto con lo sviluppo delle stesse a partire dalla prima infanzia. Ritardo mentale, del resto, è in qualche modo un termine che sta ad indicare un arresto nell’evoluzione intellettiva e di personalità, ad un età regressa, ovviamente con le dovute differenze del caso. Le differenze sono che mentre nel bambino si può osservare una sorta di armonia nel corso dello sviluppo, nel caso della disabilità c’è uno squilibrio tra funzioni che per così dire “restano indietro” e altre che avanzano, creando ulteriori difficoltà nel loro coesistere e nella tensione, comunque presente, dell’organismo di integrarne la complessità. Ma restiamo al confronto che per quanto non sovrapponibile completamente può dare delle indicazioni, soprattutto su come il contesto tenda ad interpretare questi due mondi.

Nello specifico sembra utile porre l’attenzione agli studi relativi allo sviluppo dell’empatia. Tale termine viene utilizzato, sia comunemente che in ambito di ricerca, con significati piuttosto diversi. L’aspetto che qui interessa è quello della condivisione affettiva, ossia la capacità di condividere lo stato emotivo dell’altro. Mi sembra che riflettere su questo tema sia importante, in quanto ritengo che tale capacità abbia anche o soprattutto una funzione integrativa della personalità. Sentire i vissuti emotivi dell’altro riconoscendone la diversità dai propri è, oltre che un indice fondamentale del senso di sé e consapevolezza interna, una conditio sine qua non tale individuazione non può esistere, è il collante rispetto a tutte le altre abilità e funzioni dell’io.

La capacità empatica quindi permetterebbe all’io-pelle di avere una struttura non rigida ma in grado di modificarsi in un movimento continuo di “respiro”, in un’oscillazione costante di apertura e chiusura, di filtro rispetto all’ambiente.

Le ricerche relative allo sviluppo dell’empatia sono partite da posizioni divergenti e a volte confusive sulla visione di tale funzione in quanto esperienza affettiva o cognitiva. Sempre più di recente si sta delineando un modello multidimensionale, che tiene conto degli stati evolutivi diversi in base alle competenze cognitive, che facilitano condivisioni affettive via, via più complesse.

La prima forma di condivisione empatica è il contagio emotivo, che risulta immediato e involontario, in assenza di mediazione cognitiva. La prima teorizzazione di questa esperienza risale a Darwin (1872) che rintracciava nell’uomo una capacità innata di riconoscere le emozioni e rispondere automaticamente ad esse in modo congruo. Tale abilità ha una funzione sociale di comunicazione.

Dagli studi di Hoffman (1987) in poi si è riconosciuta la presenza del contagio emotivo nell’uomo sin dalla nascita, riconducendolo ad una non chiara differenziazione di sé dall’altro.

Prima di lui Wallon (1967) aveva comunque postulato l’esistenza di tale esperienza non solo nella prima infanzia, ma in qualsiasi età qualora, anche se solo momentaneamente, venga a ridursi o annullarsi il senso di separazione di sé dall’altro (ad esempio nella folla, nell’innamoramento, nell’unione mistica, etc…). In tale forma di condivisione, non risultano appunto implicati processi cognitivi, ma l’imitazione motoria e la reazione circolare primaria. In particolare il primo processo consiste nell’assunzione involontaria della postura e mimica dell’altro. Da ciò discende il vissuto emotivo come effetto retroattivo a partire dal sistema propriocettivo dei muscoli.

Nelle successive forme più complesse di condivisione empatica, prerequisito fondamentale è il riconoscimento differenziato delle emozioni e la separazione di sé dall’altro. L’età di comparsa di tali capacità si è andata via, via abbassando dai numerosi studi relativi a tale argomento.

È da sottolineare però come la capacità di riconoscere le emozioni non determini sempre la condivisione empatica (Bonino, 1991; Bonino Giordanengo, 1993). E ciò porta alla considerazione non tanto della natura cognitiva dell’empatia, quanto al suo senso relazionale e affettivo: posso riconoscere cognitivamente l’emozione dell’altro, ma non contattarlo esperienzialmente per dinamiche personali, per salvaguardarmi per esempio da quel medesimo vissuto.

Si può perciò postulare l’esistenza di forme di condivisione empatica di tipo parallelo (Stayer, 1989) ossia determinate dall’osservazione di una situazione, associata a proprie esperienze similari. Tale forma comporta dal punto di vista cognitivo secondo Davis (1994) la capacità di associazione attraverso il condizionamento classico e l’etichettamento (labelling).

A livelli più complessi di esperienza e di capacità cognitive abbiamo l’empatia per condivisione partecipatoria, attraverso la rappresentazione del vissuto e della prospettiva dell’altro. Per mezzo del role taking, si può sperimentare secondo Feshbach (1987; 1996) il tipo di empatia più differenziato, ossia quello capace di tener presente le implicazioni situazionali e quelle della persona altra da sé, superando sempre più posizioni egocentriche. Secondo Stayer (1993), per esperire questa forma di empatia è necessaria una rappresentazione del vissuto dell’altro che emerge a partire dalla fanciullezza.

È fondamentale qui sottolineare come ciascun livello empatico necessiti di alcuni mediatori cognitivi che non devono però essere confusi con caratteristiche dell’esperienza stessa, che rimane sempre un evento affettivo e non cognitivo. Come dire che i processi mentali sono la struttura su cui si appoggia un’esperienza prettamente emotiva, che ha a che fare con il sentire, corporeo nel senso olistico dell’organismo.

Riepilogando, secondo lo schema di Bonino, Lo Coco e Tani (1998), a partire dal primo anno di vita, si può osservare l’emergere di una capacità empatica per condivisione parallela che necessita da un punto di vista cognitivo la permanenza dell’oggetto e il riconoscimento differenziato delle emozioni altrui. Il senso di separazione dall’altro è già presente ma solo al terzo anno emergerà anche una capacità di metarappresentazione (teoria della mente) che permette a tale differenziazione di assumere anche un senso dell’altro come dotato di stati interni indipendenti.

Infine gli stessi autori ritengono che attraverso tali passaggi si possa giungere ad un consolidamento dell’identità attraverso il pensiero formale dall’adolescenza in poi.